Diceva Nanni Moretti che nessuno si sogna di dire la sua nei confronti di un idraulico, di un matematico, di un medico, ma tutti parlano di cinema. Una cosa simile, ma con una svolta lievemente più tragica, accade con la poesia. La poesia, addirittura, non si sa nemmeno cosa sia, e viene utilizzata nei contesti più diversi proprio per spiegare qualcosa per cui, di solito, non si trovano parole. Tutto può essere poetico. Un spettacolo teatrale può avere tratti poetici. Un piatto di spaghetti allo scoglio può essere poetico. Il cinema stesso, soprattutto quando è incomprensibile, si dice che sia poesia. Uno gol spettacolare è pura poesia. Un bambino che improvvisamente riconosce la madre nel vuoto e sorride è poesia. Tutto sembra essere poetico tranne le poesie. Bukowski diceva: credete di trovare poesia nei libri di poesia o nelle riviste di poesia? La vita non è così semplice. Cos’è, dunque, questa poesia? Un moto umano, o divino, presente in ogni cosa che si è soliti associare al bello? E perché la poesia è associata al bello? Le poesie, di loro, nascono dalle più atroci disperazioni. Descrivono orrori. Ma come dicevamo le poesie non hanno nulla a che fare con la poesia. Di cosa si parla quando si attribuisce il termine poetico? Berlusconi dice che ci sono delle cose serie da fare, il resto è poesia. Dunque la poesia è una cosa vana, pleonastica, inutile? Facciamo un’addizione: dunque, solitamente il “poetico” si associa al bello, ma è anche riconosciuto come cosa vana, priva di utilità. La poesia non dà il pane, si dice. Sicuramente non è tangibile, ma e sempre presente quando non si trovano le parole per comunicare a qualcuno che qualcosa ci ha emozionato, ci ha toccato, ci ha cambiato. Qualcosa di simile accade con il vento. Il vento noi lo vediamo come aria, ma è originato dal calore solare. Dunque, quando si voglia ragionare attorno al cosa è poesia o poetico, dovremmo astrarci da ciò che vediamo e ciò che appare ma considerare da dove proviene e cosa la muove? Ma il vento è aria, e la poesia non sono parole, come abbiamo appurato. E dunque? Che Dio sia poesia? Non una poesia. Ma Poesia. Qualcosa che associamo al bello, indefinibile, vano, ma sempre presente, in ogni gesto per cui non si trovano parole. Una sola certezza: la poesia è dappertutto, tranne nelle poesie.
martedì 28 settembre 2010
sabato 18 settembre 2010
ANDATECI
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venerdì 10 settembre 2010
Il tempo materiale di Vasta
A volte accendo la televisione. Di pomeriggio fanno dei film. Don Camillo e Peppone, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. L'Italia capisce solo le maschere, i personaggi a una dimensione. Vieni avanti cretino. La paura del Sarchiapone. Appena un personaggio si fa più complesso diventa subito sospetto. Un giorno resto a guardare Tina Pica in Pane, amore e fantasia. Fa Caramella. Mi piace quando grida. Grida sempre. E borbotta e rimprovera. Moralizza. Penso abbia capito che una certa italianità è fatta in questo modo e vale la pena interpretarla. Una repubblica fondata sulla reprimenda. La voce che si ingrossa, la laboriosa fabbricazione del ruggito: poi il ruggito viene fuori, ci soffi sopra e ti accorgi che era schiuma.
In questi mesi, dopo la morte di Moro, il canone politico nazionale sta riorganizzando il suo impianto. Leone era già da anni irreale ed è saltato. La complessione fisica gelatinosa, la vocina adatta al belato, la mano che conficca scaramantica le corna per terra a scongiurare studenti e colera: non reggeva più. Al belato andava sostituito qualcosa di più consistente, di più aspro. Pertini è sempre Italia ma ha un'altra intonazione. Più adeguata ai tempi. Salda, severa, con quella parte di stordimento senile che rende tanto umani. E poi il passato partigiano, l'antifascismo, la fuga dal carcere politico; l'identità socialista, ma di un socialismo delle origini. Insomma, il simbolo giusto al momento giusto, il paese che rincolla i pezzi, la salvaguardia dell'unità nazionale guadagnata a strepiti e preamboli.
Tina pica, dunque, è perfetta. È Sandro Pertini donna. La stessa voce, lo stesso temperamento rude e sanguign
o. Quando però mi avvicino alo schermo e la annuso, avvolta nel suo sciallino traforato, sento un odore di incenso vecchio che arriva prima alle narici e poi alla gola. La sacrestia. Il turibolo. L'atmosfera tabernacolare. È un odore che nonostante l'assuefazione – è l'odore di Palermo e dell'Italia – ancora mi sconvolge. È anacronistico. Mi spalanca davanti neri interni piccolo-borghesi, rurali, vischiosi, un'estensione delle cartoline che passano all'Intervallo. Una massa di scialli, di centrini, gli ornamenti di vetro opaco, gli specchi d'armadio chiazzati. I bicchieri di cucina sui quali, come in un incubo traslucido, si riconoscono i sedimenti di saliva, strato su strato.
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