Se interpellati, quei ragazzi erano in grado di raccontare aneddoti divertenti e appassionanti sulle loro vite, ma il fatto di metterli su carta era vissuto più come un compito ingrato che un'aspirazione. Per quanto mi riguardava, se i miei allievi erano disposti a fingere che ero un insegnante, il minimo che potessi fare era restituire il favore e fingere che loro fossero scrittori. Anche quando qualcuno usava il suo vero nome e raccontava, per esempio, di un appuntamento dal dentista, io accoglievo il testo come pure fiction, e dicevo: "Allora, Dean, raccontaci, come hai inventato questo personaggio?".
A quel punto lo studente borbottava qualcosa, indicandosi il batuffolo di cotone insanguinato infilato contro la gengiva gonfia, e io gli chiedevo: "Quando hai deciso che il tuo personaggio avrebbe dovuto fare qualcosa per il suo molare incuneato?". Domande simili permettevano agli autori di sentirsi creativi, e proteggevano chiunque avesse opinioni politiche impopolari.
"Mi faccia capire" disse un giorno uno studente. "Lei sostiene che se io dico una cosa ad alta voce sono semplicemente io che la dico, mentre se la stessa cosa la scrivo su un foglio di carta è come se la dicesse qualcun altro, è così?"
"Esatto" risposi. "E in questo caso la chiamiamo fiction."
Lo studente tirò fuori il suo quadernone, scribacchiò qualcosa e mi porse un foglio con su scritto: "Questa è la più grande cazzata che abbia mai sentito in vita mia".
Era una classe di gente sveglia.
Dal racconto "La curva dell'apprendimento" di David Sedaris
dalla raccolta "Me parlare bello un giorno"
dalla traduzione di Matteo Colombo
dalle Edizioni Mandodari
sei proprio scemo hai aspettato le dieci in punto...
RispondiEliminaa chi si riferisce!?!
Eliminale dieci in punto son robe da pazzi o da robbe!