Non che il questore fosse un fan della verità, anzi, al contrario, vedeva nella verità grane senza fine. La verità costituiva sempre un rischio elevato per la sua carriera politica. Incarognirsi a cercare la verità significava pestare molti piedi e molti di quei piedi indossavano scarpe costose.
Al contempo la verità era un'ottima merce di scambio, mediante la quale ottenere favori di ogni tipo. Il suo silenzio e quello dei suoi uomini gli avevano garantito, negli anni, di scalare la piramide sociale a due e, a volte, a tre gradini alla volta, rimpinguando il proprio conto in banca.
Aveva una filosofia professionale molto semplice: quando i suoi colleghi parlavano di "metodo scientifico" o di "inoppugnabilità delle prove" in realtà mentivano. Non c'era alcun modo di risalire al bandolo della matassa, per il semplice fatto che c'erano centinaia di matasse che si intrecciavano a vicenda in un unica grande matassa inestricabile. Ogni volta che un inquirente provava a seguire una traccia finiva immancabilmente per girare a vuoto da una matassa all'altra. le indagini si mescolavano continuamente tra loro; le ipotesi si aggiungevano ad altre ipotesi; la scientifica trovava decine di impronte e campioni di DNA appartenenti a decine, a volte centinaia di persone; i testimoni diretti rilasciavano deposizioni contraddittorie; le prove venivano inquinate, sia dai colpevoli che dalla mancanza di professionalità dei colleghi; i moventi tendevano a moltiplicarsi all'infinito; le intuizioni "geniali" dei commissari si scontravano ogni giorno con la realtà dei fatti; i politici facevano pressioni perché tutto venisse insabbiato o addebitato a migranti o drop-out; la malavita organizzata corrompeva quasi tutto il suo organico e come se non bastasse il Ministero non faceva altro che ridurgli i fondi.
In una situazione come quella, trovare la verità significava privilegiare una serie di ipotesi infondate rispetto alle altre. Nove volte su dieci significava mettere in carcere qualcuno che non c'entrava nulla, dandolo in pasto a opinione pubblica, avvocati e magistrati. Era una macchina infernale, che si autoalimentava, indagine dopo indagine. Da una parte entravano i delitti, dall'altra uscivano i colpevoli. E lui non era che una rotella dell'ingranaggio. Il suo compito consisteva nel vendere delle storie credibili alle famiglie delle vittime, a prescindere se fossero vere o meno. Non la verità, ma la sua parodia: la veridicità. D'altronde, come gli aveva detto una volta un vecchio boss che aveva cercato la loro protezione per evitare di essere ucciso assieme alla sua compagna diciassettenne: a nessuno interessava la verità. L'importante era dare loro un colpevole. Erano i colpevoli a dare senso alla giustizia, non viceversa. Senza di loro, tutta quella follia generalizzata chiamata società sarebbe implosa. Per questo lo Stato stipendiava lui e i suoi colleghi: per fabbricare incessantemente colpevoli.