Casa editrice Sperati
(tratto dal romanzo Seguirà buffet di Alberto Forni)
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Gianni Sperati era arrivato all’editoria per motivi del tutto casuali.
Un amico, divenuto assessore alla cultura di un piccolo Comune, gli aveva chiesto una mano per organizzare un concorso letterario. Concorso letterario che prevedeva il pagamento delle consuete “spese di segreteria”, inizialmente fissate in lire diecimila e che Sperati tuttavia, come primo atto della nascente collaborazione, era riuscito a far portare a venticinque perché “Ci sono pure le targhe da pagare”.
Alla fine, con grande sorpresa di Sperati, dell’amico assessore e della giunta tutta, i partecipanti al 1º Concorso Poeti Moderni furono oltre trecento e quattro rapidi conti spinsero il futuro editore a guardare con occhio diverso il mondo dell’arte, con particolare riferimento alla letteratura (da quel momento in avanti “Letteratura”), che lui aveva sempre considerato come un sottoprodotto figlio di privilegi, sfighe e amenità varie da non prendere neanche in considerazione. Almeno da un punto di vista professionale.
Qualche mese più tardi, caduta la giunta, Sperati prese in mano le sorti del Concorso Poeti Moderni, e iniziò a stringere accordi per iniziative simili con vari Comuni limitrofi. Le occasioni d’altra parte non mancavano: c’era sempre un evento da ricordare, un santo da festeggiare, una sagra da far conoscere. E se pure non ci fosse stato un motivo evidente, bastava un po’ di fantasia per partorire nuovi progetti. La Poesia d’altronde era occasione prima e immobile e bastando a se stessa non aveva bisogno di futili pretesti. E così, se non cadevano i cent’anni della liberazione di qualcosa da qualcuno, si potevano sempre celebrare la mamma, i nonni o gli inossidabili legami famigliari. Se non venivano in soccorso Sant’Eustorgio o Sant’Ignazio, era comunque possibile riscoprire il valore dell’artigianato attraverso concorsi come Poesie in ceramica o Legnopoesia. E se la stagione delle sagre era di là da venire, perché non cimentarsi su temi arcaici e sempre sentiti come le stagioni? Fossero quelle dell’anno solare o della vita tutta?
Dopo i concorsi – che nell’anno di maggior successo diedero vita a un fitto calendario scandito da una ventina di appuntamenti – arrivò in maniera naturale l’idea della casa editrice. D’altra parte erano stati proprio i poeti a volerla: “Va bene il premio, ma vorrei far arrivare le mie poesie alla gente”, “Invece della targa sarebbe preferibile una pubblicazione, anche piccola, magari con un contributo”.
Per quanto Sperati riflettesse da tempo sul fatto di compiere un ulteriore passo nel mondo della Letteratura, gli era sempre mancato lo stimolo risolutivo. La parola “contributo”, che suonava dolce e innocua, eppure si rivelava allo stesso tempo foriera di varie e concrete declinazioni, ebbe il merito di diventare la chiave di volta della casa editrice Sperati, che tanto aveva vissuto prima della nascita nella mente del suo futuro fondatore.
Se i concorsi erano stati una scoperta, la casa editrice fu una rivelazione.
Perché se tutto sommato era comprensibile che alcune persone fossero disposte a partecipare a premi di poesia sperando nella gloria letteraria – con lo stesso approccio, va detto, con cui speravano nei numeri del Lotto, in certuni almeno – il fatto che la maggior parte di loro inseguisse anche la pubblicazione “a ogni costo” era un fenomeno che lasciava sconcertati.
Agli aspiranti poeti niente importava se non vedere il proprio nome sulla copertina di un libro; niente aveva più valore di arrivare a stringere in mano il frutto delle proprie fatiche.
Per questo, tutto si concentrava ed esauriva nella tensione di arrivare a quel risultato: il resto non aveva importanza, per il resto c’era sempre una risposta, almeno una. Avevano pagato per pubblicare? Anche Moravia l’aveva fatto. Il testo era pieno di refusi? Era frutto della spontaneità. Il libro non sarebbe stato distribuito nelle librerie? Un libraio che tenesse qualche copia l’avrebbero trovato di sicuro. Nessuno l’avrebbe recensito? Colleghi e famigliari ne avrebbero parlato per mesi.
Per quanto Gianni Sperati non ci avesse mai creduto fino in fondo – era troppo intelligente per farlo – in alcuni momenti aveva l’impressione di assolvere a una funzione sociale. Sicuramente non vendeva sogni come qualcuno, nel corso del tempo, l’aveva rimproverato, anzi, era grazie a lui se questi sogni potevano arrivare a compimento, come in una moderna fiaba. È vero, c’era il contributo, ma in fondo era solo un piccolo contributo. E il libro magari non avrebbe fatto la sua apparizione nelle librerie e sui giornali ufficiali, ma avrebbe comunque avuto una sua vita. Grazie a qualche libraio amico, qualche presentazione ci sarebbe stata. E grazie a qualche rivista amica di qualche casa editrice amica, qualche recensione (positiva) ci sarebbe stata. C’era forse bisogno di un’investitura ufficiale per fare di un libro, un vero libro? In fondo quanta spazzatura pubblicavano le case editrici “serie”? Quanta qualità invece si poteva trovare in editori come lui, simili a lui, che tiravano avanti a dispetto di tutto? Alla fine, non sarebbe arrivato il giorno in cui la Storia avrebbe riconosciuto il ruolo fondamentale di case editrici come la sua? Probabilmente no, perché erano tutte cazzate e Gianni Sperati lo sapeva, anche se ogni tanto si illudeva di crederci. Almeno per qualche minuto.
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