Era per Alice Baum e invece poi chissà. L'illustrazione è dei Brochendors Brothers. Basta.
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Arrivare a casa è normale per molti e anch'io oggi, anche oggi, arrivo. Tolgo vestiti pantaloni calzini a comando, una danza della noia che conosco bene, in equilibrio prima su un piede poi sull'altro facendo attenzione a non svegliare Sara che già dorme, chissà da quanto dorme con i suoi narcolettici da supermercato del buon vivere. Il letto sembra un ritorno, sempre ad aspettarmi e a chiedermi dove sono stato, che m'imbarazzerebbe rispondere “a lavorare”.
Sara nel sonno si gira dall'altro lato. Al buio mi sdraio e mi infilo sotto le coperte, le uniche certezze degli ultimi anni. Mi metto su un fianco ma sento il ticchettio dell'orologio ancora al polso. Accendo l'abat-jour per toglierlo e nel farlo vedo uno strato marcescente di pelle che rimane attaccato al cinturino; mi stavo dimenticando che sono in continua decomposizione.
Cerco di arginare lo strappo tenendo premuto il gelatinoso lembo di pelle perché non rimanga attaccato all'orologio, anche se una parte ormai è andata. La ferita è marcia e puzza ma in fondo è una putrefazione alla quale sono abituato, affezionato direi quasi. Alla fine riesco a toglierlo, si tratta di un piccolo squarcio e non si vede l'osso però rimangono tutti quei lembi rivoltati verso l'esterno, a ricordarmi che il processo è inarrestabile. Per un attimo il pensiero di quel costante consumarmi mi infastidisce, sento un vuoto espandermisi dentro il torace. Me ne rendo conto: a me non importa come sto finendo, domani l'orologio tornerà a coprire tutto e fino alla fine della giornata lo squarcio rimarrà seppellito sotto quel dispotico misuratore di tempo.
Mi sistemo sotto le coperte, prima di spegnere la luce alzo le lenzuola e guardo la schiena nuda di Sara. Lei sembrerebbe non marcire mai. Spengo la luce, ecco sì, adesso m'addormento, chissà domani, chissà chi sarà il primo a cui dirò buongiorno.
Cerco di arginare lo strappo tenendo premuto il gelatinoso lembo di pelle perché non rimanga attaccato all'orologio, anche se una parte ormai è andata. La ferita è marcia e puzza ma in fondo è una putrefazione alla quale sono abituato, affezionato direi quasi. Alla fine riesco a toglierlo, si tratta di un piccolo squarcio e non si vede l'osso però rimangono tutti quei lembi rivoltati verso l'esterno, a ricordarmi che il processo è inarrestabile. Per un attimo il pensiero di quel costante consumarmi mi infastidisce, sento un vuoto espandermisi dentro il torace. Me ne rendo conto: a me non importa come sto finendo, domani l'orologio tornerà a coprire tutto e fino alla fine della giornata lo squarcio rimarrà seppellito sotto quel dispotico misuratore di tempo.
Mi sistemo sotto le coperte, prima di spegnere la luce alzo le lenzuola e guardo la schiena nuda di Sara. Lei sembrerebbe non marcire mai. Spengo la luce, ecco sì, adesso m'addormento, chissà domani, chissà chi sarà il primo a cui dirò buongiorno.
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