lunedì 24 marzo 2014

Burroughs nel senso di Tiziano Scarpa (Necroelogio)

C’è un altro cadavere di scrittore da mangiare, pronto in tavola, questo qui è fatto tutto di gomma da masticare, dalla testa ai piedi, gomma americana impregnata di alfabeto. Gustolungo metà novecento, dalla beat generation a Kurt Cobain, dalla psichedelica all’hip-hop. Metto in bocca le pupille. Come l’elogio funebre di Carducci davanti al corpo morto di Garibaldi: cittadini, sotto queste palpebre secche si stanno putrefacendo un miliardo di immagini, cataste di paesaggi, Sudamerica e Suditalia. Che cosa ha visto William Burroughs? Cittadini, le palline nere che sto masticando sanno di parole, questo morto ha visto prima di tutto le parole. Louisiana, Messico, Marocco, Inghilterra, New York, d’accordo. E almeno altri tre continenti di allucinazioni. Ma prima di tutto le parole. «La parola è venuta prima dell’immagine» (Il biglietto che è esploso). La lettura è venuta prima della scrittura. L’ascolto è venuto prima dell’annuncio. «La teoria di un universo preregistrato» (Appartiene ai cetrioli). Incollate frantumi di frasi, sforbiciate articoli, accartocciate testi, appallottolate fotocopie, origamizzate manifesti, rimescolate nastri di audiocassette, sostituite colonne sonore, impastate i discorsi altrui, perché il discorso è sempre altrui. Il linguaggio è sempre di qualcun altro, noi non lo scriviamo, lo riscriviamo. Quindi lo leggiamo. Non scriviamo, leggiamo. Non parliamo, ascoltiamo. Burroughs è uno di quegli scrittori che scrivono per leggere cosa viene fuori. Lewis Carroll, André Breton, Tristan Tzara, Gertrude Stein. Altro che esprimersi, essere fedele alla propria ispirazione, imprimere l’io in uno stile: questi sono gli obiettivi miserelli di chi non si è mai stupefatto a sufficienza dell’originalità delle parole. È il linguaggio che è originale, non noi, perciò non avere paura di plagiare: ruba, copia, trascrivi, perché ogni volta che apri bocca stai plagiando il linguaggio. Di originale possiedi soltanto il silenzio. Tutto il resto è biblioteca, esplosa e ricaduta in ogni angolo di strada, migliaia di edicole piovute dal cielo. Eccolo qua, l’inconscio, la realtà, la vita. L’inconscio, la realtà, la vita, sono questa frase, questa qui che vedi scritta sotto i tuoi occhi adesso, metà Bibbia e metà «Novella 2000», sei tu. Tutto il linguaggio parla di te. Non sta descrivendo quello che ti è successo, sta dicendo quello che ti capiterà. Profezia, paranoia, complotto. Sta parlando di me, allude a me, sta dicendo la mia morte. Vorrei assaporare la ghiandola pineale, quel nodulo cartesiano dove anima e corpo si toccano, linguaggio e silenzio si combattono e si sciolgono uno nell’altro: ma si possono continuare a ricopiare le lettere dell’alfabeto del nome di William Burroughs lucidi e placidi, in furibonda quiete davanti a un ventilatore? È che mi spaventa assaggiare anche le vene bucate, non me la sento di masticare il polpastrello che ha tirato il grilletto centrando la moglie al posto del bicchiere, non ho coraggio, sta scrivendo di me, si riferisce a me, mi sta facendo leggere la mia paura.
Quel pezzetto là sopra è una delle voci dell'alfabeto contenute dentro questo bellissimo libro che abbiamo trovato a Torino. Molte belle riflessioni da Parte di Scarpa. Qui sotto invece mettiamo la faccia di Burroughs ché Burroughs ci sta sempre bene, dobbiamo dire.

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