Quando venne il tempo di prendermi le vacanze - non ne avevo fatto un giorno in tre anni tanta era l'ansia di contribuire al successo della società! - mi presi tre settimane anziché due e scrissi il libro sui dodici piccoli uomini. Lo scrissi di volata, cinque, sette, a volte ottomila parole al giorno. Pensavo che un uomo, per essere scrittore, deve scrivere almeno cinquemila parole al giorno. Pensavo che deve dire tutto quanto in una volta - in un libro solo - e poi crollare. Non sapevo nulla, dello scrivere. Avevo una paura da cacarmi addosso. Ma ero deciso a spazzar via Horatio Alger dalla coscienza Nordamericana. Immagino che sia stato il peggior libro mai scritto al mondo. Era un tomo colossale e sbagliato dal principio alla fine. Ma fu il mio primo libro ed io ne ero già innamorato. Se avessi avuto i soldi, come li aveva Gide, lo avrei pubblicato a mie spese. Se avessi avuto il coraggio che aveva Whitman, sarei andato a venderlo di porta in porta. Tutti quelli a cui lo feci vedere mi dissero che era tremendo. Mi sollecitavano ad abbandonare questa idea di scrivere. Avrei imparato, come Balzac, che bisogna scrivere parecchi volumi prima di firmarne uno colo proprio nome. Dovevo imparare, e feci presto, che bisogna scrivere e scrivere e scrivere, anche se tutti al mondo ti sconsigliano, anche se nessuno ti crede. Forse si fa proprio perché nessuno ci crede. Forse il vero segreto sta nel far credere il prossimo. Quel libro era sproporzionato, sbagliato, cattivo, tremendo, come mi dissero, ma questo è naturale. Io, principiante, tentavo un'impresa a cui un uomo di genio si sarebbe accinto solo alla fine. Volevo dire l'ultima parola fin dal principio. Era assurdo e patetico. Fu una sconfitta schiacciante ma mi mise ferro nella schiena e zolfo nel sangue. Almeno sapevo cosa significa fallire. Sapevo cosa significa tentare una cosa grossa. Oggi, se ripenso alle circostanze in cui scrissi quel libro, quando ripenso al materiale straripante che cercavo di mettere in forma, quando ripenso quanto avevo cercato di abbracciare, mi dò una pacca sulla schiena, mi dò dieci e lode. sono orgoglioso che sia stato un così totale fallimento; se fosse andato bene io sarei stato un mostro. A volte, se sfoglio i miei taccuini, anche solo a rileggere i nomi di quelli su cui volevo scrivere, mi prendono le vertigini. Ciascuno veniva a me con un modo suo; veniva a me e me lo scaricava sul tavolo; voleva che lo prendessi, che me l'accollassi. Non avevo il tempo di creare un mondo tutto mio: dovevo star saldo come Atlante, pur essendo in piedi sulla grotta dell'elefante e l'elefante in groppa alla tartaruga. A chiedersi su cosa poggiasse la tartaruga ci sarebbe da impazzire.
lunedì 25 agosto 2014
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